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“Es tu culpa!”: cronaca di un divorzio annunciato

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Carlo Ancelotti e Aurelio De Laurentiis: la cronaca di un divorzio annunciato che si è inesorabilmente consumato, nel peggiore dei modi

Carlo Ancelotti e Aurelio De Laurentiis: la cronaca di un divorzio annunciato che si è inesorabilmente consumato, nel peggiore dei modi.

“Es tu culpa!”: la famosissima frase che Higuain scagliò quasi come una maledizione nei confronti del massimo dirigente azzurro dopo aver segnato, con l’odiata maglia bianconera, al San Paolo. Il pipita fu fischiato e insultato. In preda ai nervi, urlò la famosa frase, indicando, in tribuna, il Presidente che rimase, tuttavia, impassibile.

Ma tra Ancelotti e De Laurentiis di chi può essere la colpa? Chi ha potuto tramutare in semplice affetto e in un saluto cordiale (molto di circostanza) e di stima, un amore che sembrava smisurato?

Il patron azzurro, appena annunciò l’arrivo del pluridecorato tecnico di Reggiolo, era in brodo di giuggiole, lo annunciava come il Sir Alex Ferguson del Napoli. Voleva regalargli un contratto a vita. Eppure è Sir Carletto (Ancelotti è molto ben voluto in Premier) è durato “appena” 18 mesi, nella sua avventura napoletana.

Molti ancora faticano a comprendere cosa possa essere successo: sicuramente, quando accadono separazioni (più o meno traumatiche) la colpa è sempre di tutti. Magari c’è chi ha maggiori responsabilità, ma è comunque di tutti.

In estate nulla lasciava presagire quanto poi accaduto: Ancelotti, a domanda specifica, aveva dato un bel 10 (o dieshi tondo tondo per dirla alla Alessandro Borghese) al mercato del Napoli. Eppure era insoddisfatto. Si vedeva. Era palese. Glielo si leggeva in faccia.  Era convinto che al 31 di agosto sarebbe cambiato qualcosa e tutti, ma proprio tutti, sarebbero stati contenti. Forse di un’altra era.

La squadra non girava e non giocava: ragazzi talentuosissimi che l’anno prima avevano chiuso il campionato al secondo posto, non riuscivano più neanche a indovinare tre passaggi di fila. Neanche per sbaglio. Probabilmente neanche un bambino alle prime armi coi videogames sarebbe capace di tanto scempio. Eppure è successo. Il mister che ha vinto tutto, il leader calmo che riusciva a farsi amare da molti dei calciatori che aveva allenato -come Cristiano Ronaldo e James Rodriguez, mica robetta- a Napoli era il lontanissimo parente, forse un ologramma ad intermittenza di quello che era stato.

Il problema era dovuto al mancato arrivo del suo pupillo James Rodriguez e della punta da 30 gol a campionato? La colpa era dell’elettricista di Icardi che probabilmente non aveva finito l’impianto elettrico in tempo, facendo optare la tanto chiacchierata, quanto vituperata “Uanda” per la soluzione parigina?

Chi lo sa! Eppure qualcosa non ha funzionato. Il ritiro non concordato tra Ancelotti e De Laurentiis, col tecnico che spiffera ai quattro venti il suo disaccordo mostrando malumore, ha creato la prima, vera, inevitabile crepa.

La sera della partita contro il Salisburgo è stata la punta dell’iceberg. Una partita pareggiata e mal giocata, non può provocare un pandemonio. Non di portata apocalittica, per lo meno.

Dopodiché c’è stato un tutti contro tutti. La squadra non giocava, l’allenatore ha cambiato più formazioni in 15 giornate di campionato di quante donne abbia cambiato Marlon Brando nell’arco della sua esistenza. Proprio questi continui cambiamenti, che non hanno dato stabilità e certezze ai giocatori, insieme a carichi di lavoro leggeri, hanno creato malumore all’interno dello spogliatoio. In tutto questo c’è stato un preoccupante ed assordante silenzio del Presidente.

Dopo il tristemente celebre ammutinamento, la squadra si è, nei fatti, ribellata alle scelte dell’allenatore. Nella maniera più subdola possibile. Scegliendo di non giocare. Il problema si è palesato la sera di Milan-Napoli: dopo la sosta per gli impegni per le nazionali. Quindici giorni, due settimane intere, in cui si (s)parlava e si faceva becero gossip, piuttosto che dare peso alla mancanza di prestazioni e risultati. Ma a San Siro, qualcosa cambia, anzi qualcosa è cambiato (non come il celere film con Jack Nicholson): nel secondo tempo, Ancelotti dava indicazioni, o almeno tentava di farlo, venendo platealmente mandato a quel paese. Da Insigne e Callejon per la precisione. Due giocatori, a Napoli da oltre un lustro, che si ritenevano essere esecutori materiali dell’ammutinamento.

Svelato il mistero. I giocatori non vogliono l’allenatore. Non più. Un altro segnale, chiarissimo, un manifesto della svogliatezza che pervade i giocatori si è visto a Udine. Al minuto 80. Mario Rui tenta una ripartenza, ma nessuno lo segue. Sembra il finale agghiacciante di un film horror. Invece no, è solo il finale, squallido, di una partita che ha segnato la spaccatura definitiva, tra l’allenatore tra i più vincenti (forse IL più vincente) al modo e i suoi ragazzi.

La partita contro il Genk di Champions League, ha dato un ulteriore dimostrazione che la squadra voleva e vuole dimostrare che il problema è l’allenatore. Nell’aria (che comincia ad intingersi di un non so che di natalizio) si sente l’imminente addio del tecnico. I ragazzi sono leoni. Lottano su ogni pallone: Mertens, con uno scatto fulmineo torna in mediana a lottare su un pallone che sembra una pallina del flipper. E se lo prende. Di prepotenza.

L’evanescente Milik, colpito da strani infortuni, segna tre gol in trentanove minuti. Roba di pochi eletti: neanche il suo connazionale Lewandoski ha osato tanto (mica uno qualunque). Non ha più senso ormai parlare di schemi, o di multe o di altro. “Es tu culpa….Carlo!”  . Nel calcio vige una regola, rigida, ferrea, non scritta. Quando i risultati non ci sono paga (sempre) l’allenatore. Per tutti.

Carlo Ancelotti, chiude la sua esperienza alla guida del Napoli dopo 73 gare (72 in panchina e una saltata per squalifica) e una media di 1,8 punti per incontro frutto di 38 vittorie, 19 pareggi e 16 sconfitte tra Serie A, Coppa Italia, Champions League ed Europa League con 127 gol fatti e ben 73 subiti. In termini di risultato finale dunque il 2° posto in campionato (a – 11 dalla Juventus campione d’Italia) resta quello di maggior prestigio conquistato dall’ex tecnico, tra le altre, di Milan, Chelsea, Real Madrid e Bayern Monaco nel suo corso ai piedi del Vesuvio, a cui si aggiunge l’accesso gli ottavi di Champions League conquistato nella sua ultima apparizione da allenatore del Napoli.

Proprio l’accesso agli ottavi ha sancito la separazione definitiva: non ha voluto rassegnare le proprie dimissioni, per una questione di orgoglio (in conferenza post partita ha detto: “Non mi sono mai dimesso e mai lo farò!”). Da vincente. Non ha perso una gara nel girone (tutto sommato abbordabile): 3 vittorie e 3 pareggi. Almeno con l’onore delle armi. Almeno a testa alta.

 

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