Napolitudine – Il Vesuvio, l’ultimo silente ed incontrastato Re di Napoli

Un napoletano che parte, al suo rientro sarà la prima cosa che cercherà con lo sguardo: la sagoma scura del Vesuvio. E il gigante silente, lo accoglierà burbero: “Io sto ‘cca…“
Sono tante le leggende che raccontano le origini del Vesuvio, sicuramente la più toccante è quella del cavaliere Vesuvio e della fanciulla Capri. La scrittrice Matilde Serao ci insegna ancora una volta a rileggere la storia con gli occhi del cuore.
“Un cavaliere di carattere violento e focoso di nome Vesuvio, si innamorò di Capri, una giovane di una casa nemica. Le famiglie ostacolarono quell’amore e la nobile famiglia di Capri imbarcò la fanciulla su una feluca per mandarla lontano. Ma lei, quando si vide strappare al suo amato, si gettò tra le onde da cui nacque l’isola azzurra. Il focoso cavaliere non trovò mai pace per la perdita dell’amata, cominciò a gittar cadi sospiri e lacrime di fuoco e tanto si gonfiò che divenne un monte nelle cui viscere arde un fuoco eterno. Oggi ancora Vesuvio è dirimpetto alla sua amata Capri e non potendola raggiungere freme d’amore. Sbuffa fumo e il fuoco del suo amore trabocca in lava corruscante…”
Quella dimensione magica che racconta la storia di Napoli attraverso i miti riportati nella nostra quotidianità millenaria
Lo stesso Pulcinella, secondo molti, avrebbe un’origine mitica e quasi magmatica, infatti sarebbe nato dopo l’eruzione del 1631 da un uovo espulso dal cratere del Vesuvio. Ciò spiegherebbe il perché Pulcinella rappresenterebbe tutti i pregi e i difetti del popolo napoletano e anche come il Vesuvio sia parte integrante della vita della città di Napoli.
Esiste un rapporto simbiotico tra il vulcano Vesuvio ed il popolo napoletano, presenza minacciosa eppure rassicurante. Madre e matrigna delle popolazioni che incuranti del pericolo solo sopito, hanno ricoperto le pendici del vulcano di case. Il Vesuvio è un vulcano costituito da lava di diverse composizioni chimiche: un alternarsi e mescolarsi nei secoli di depositi piroclastici e colate di lava che hanno reso il terreno ricco di silicio e potassio molto fertile. Come testimoniato dalla lussureggiante vegetazione alle sue pendici. Quella stessa fertilità che spinse i Greci e poi i Romani ad insediarsi alla falde del Vesuvio e che oggi ci regala ancora prodotti antichi come la vite del Piedirosso (pere’ e palumbo), il Coda di Volpe, il Caprettone e il greco del Vesuvio. Vitigni che ci regalano il Vesuvio e il più celebre Lachryma Christi. Ma non solo, celebri e ricercati sono i Pomodorini del Piennolo: una varietà di pomodorini dalla buccia spessa e leggermente aciduli che vengono conservati facendo seccare al sole l’intero grappolo.
‘Nu coso niro a fforma ‘e cuppulone ca stenne ‘e bracce dint’a chistu mare, s’ astregne l’onne ‘mpietto e ll’arrevota.
Sta llà comm’a ‘nu viecchio dispettuso ca s’è piazzato justo mmiez’â casa, ca dorme a ssuonno chino e guaie a chi ‘o sceta. Gianna Caiazzo
Una madre prodiga di amore e di dolore. Le eruzioni del Vesuvio hanno segnato la storia delle popolazioni che nei secoli lo hanno sfidato scegliendolo come dimora.
L’evento più disastroso è quella del 24 agosto (o forse ottobre, gli storici discordano) del ’79 d.c., quando il Vesuvio sprigionò tutta la sua potenza in una devastante eruzione che ricoprì le città di Pompei, Ercolano, Stabia e Oplontis. Lasciando ai posteri una triste istantanea della vita quotidiana dell’epoca: cenere e pomici hanno ricoperto cose, animali e soprattutto persone. Fermandone il tempo e l’esistenza. L’ultima eruzione del grande vecchio risale al 1944, un evento effusivo che coinvolse ben 8 fontane di lava. Il fiume di lava raggiunse i Comuni di S. Sebastiano e Massa di Somma. Le cittadine maggiormente colpite dal cataclisma furono Terzigno, Pompei, Scafati, Angri, Nocera, Poggiomarino e Cava. portò morte e distruzione: passarono molti mesi per scoprire quanti disagi subirono gli orti e gli interi Paesi. Lo stato di calma iniziò il 7 Aprile 1944 e perdura fino ad oggi.
Eppure, nonostante il Vesuvio sia sopito ma ancora attivo nelle sue profondità, la Zona Rossa, quella topografia che identifica gli agglomerati urbani nati alle sue pendici, è la più popolata d’Europa.
Dal di fuori sembra incoscienza, si condanna l’abusivismo edilizio ed il lassismo delle istituzioni che non prendono provvedimenti seri. Certo questo è un modo distaccato di considerare il problema: i napoletani non parlano volentieri di cosa potrebbe accadere… ma poi, perché dovrebbe accadere? “Poi ce penzamm”. La paura viene esorcizzata dal tipico fatalismo partenopeo.
Il Vesuvio è parte del pensiero napoletano, della cultura e della vita. Il motivo per cui ci possiamo permettere l’ironia nel valutare l’ignoranza di chi sugli stadi ci canta “Vesuvio, lavali col fuoco“.
Anche in questo caso, la risposta del Vulcano buono non ha tardato ad arrivare. I suoi figli l’hanno presa con filosofia e i sentimenti si fondono nelle parole di una lettera speciale arrivata per mezzo di Simone Schettino e indirizzata a Giampaolo Tosel, il giudice sportivo sempre pronto a multare i tifosi ma sordo ai cori razzisti.
“…da diversi decenni, non sempre, ma molto spesso durante una partita di calcio, sento invocare il mio nome ad alta voce. Urla che mi implorano di risvegliarmi, di compiere stragi, frasi del tipo “Vesuvio pensaci tu” o peggio ancora “Vesuvio lavali col fuoco”. Io ogni volta sono costretto a svegliarmi, col terrore che sia Madre Natura che in quel momento mi ordina di compiere una catastrofe. Invece puntualmente cosa scopro??? Che sono gli ennesimi imbecilli che da anni invocano il mio nome. Ma a chi dovrei uccidere secondo questi deficienti? Chi dovrei massacrare?. La mia terra?! Il mio Popolo?! La mia gente, i miei figli?!”
Non c’è mai stata risposta, siamo piagnoni! Del resto è quando ci viene addebitato da secoli, il Sud sa solo piangersi addosso senza reagire. Certo diventa difficile quando nessuno ti concede veramente la possibilità di farlo e a volta ci resta solo di sopravvivere. Ma la nostra filosofia ci fa lavare la faccia con l’acqua di mare, ci fa alzare gli occhi a cercare la nostra montagna e ci fa dire “ce penzamm’ diman…“.
