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Grazie a “Dios” ho visto Maradona

Grazie a Dios ho visto Maradona

Grazie a “Dios” ho visto Maradona

Era nel Giugno del 1994, in una partita dei mondali Americani dell’Argentina contro la Grecia, che i miei occhi si posavano consapevolmente su Diego Armando Maradona.
Ahimè, il mio primo ufficiale Maradona da poesia scritta sulla “cancha”, combaciava incredibilmente con l’ultimo di quel livello.
Negli anni precedenti però, ed in quelli successivi, Diego, a ritmo forsennato, l’ho vissuto nei VHS registrati da papà ed in quelli acquistati nelle raccolte de “Il Mattino”.
Devo aver consumato la pellicola delle finali di Coppa Uefa contro lo Stoccarda; per non parlare di quelle degli storici scudetti.
Quello, il primo, del 1986, non l’ho vissuto.
Di quello del 1990, invece, ricordo un tricolore enorme disegnato sulla pavimentazione del marciapiede che poi, dopo anni, sarebbe diventato, scolorito, parte del campo di calcio immaginato, mio e dei miei amici.
Ricordo un fottìo di bandiere azzurre penzolanti dai balconi, dalle finestre, il fischio del carretto delle noccioline e dei lupini.
La radio, che era il modo per essere più vicino ad una partita di calcio se non avevi il biglietto per le gradinate, raccontava le gesta eroiche di Diego e dei suoi compagni.
E poi zio Carlo affacciato, con un cappello a cilindro bianco azzurro in testa o qualcosa di simile, alla finestra, di quella che all’epoca era “casa di nonna” ma oggi è casa sua.
Sono dettagli intermittenti che la mia mente, a distanza di trenta anni, non ha mai rimosso e che, spero, mai rimuoverà.
Le magie di Diego, in quel calcio spoglio ma carico di significato, mi hanno contagiato e mi hanno fatto capire immediatamente quanto sarebbe stato importante il gioco del pallone nella mia vita e quanto la fede azzurra avrebbe significato per me.
Non è retorica parlare di fede, no.
E’ la pura realtà.
Nel 1996, all’età di dieci anni, piccolo, preso da Napoli e trapiantato in un’altra dimensione cittadina, vale a dire Forlì, Diego, il calcio, i VHS ed il Napoli sono diventati il mio pane quotidiano.
Il mio modo per sentire vicino la mia comunità, la mia tribù, il mio sangue.
Sognavo il pallone, sognavo lui e le sue magie ed ogni volta che entravo in campo per giocare una partita con i compagni della scuola calcio, pensavo di poter fare quel che gli avevo visto fare in videocassetta.
Beata incoscienza infantile.
E’ per merito suo che ho imparato a palleggiare con entrambi i piedi e, ad oggi, ogni volta che fermo la palla sulla testa lo faccio pensando a lui, a “iss”.
Un giorno, alla scuola Benedetto Croce di Forlì, la Prof. di Italiano, una delle poche di tutta la mia carriera scolastica per cui ho maturato e nutrito stima, e mi piacerebbe veramente dirglielo, perché è stata l’unica, nel mondo dell’istruzione, a capire realmente la mia propensione, mi pose una domanda:
“Qual è il personaggio famoso che vorresti essere?”
Ad oggi, probabilmente, sceglierei Che Guevara, ma all’epoca no.
All’epoca, come uno scugnizzo preso dal cast di “Io speriamo che me la cavo” risposi, senza pensarci neanche un attimo…”Maradona!”
Lei, ugualmente senza pensarci, rispose: “Uh Signur, sta zet!”
Mi avrebbe voluto alla scuola “classica” e chissà, scrittore, come poi, per tutto l’anno e mezzo sotto la sua ala d’insegnamento, mi aveva consigliato, per attitudine, come strada per il futuro.
Ma io sognavo altro, volevo fare il calciatore, giocare nelle squadre minori e diventare forte con loro; proprio come Diego.
Se penso a “Diego Armando Maradona”, lo sento parte del mio Dna, del mio sangue.
E’ flusso di pensieri, sogni, immagini, ricordi.
E’ parte di me perché vissuto negli occhi di mio padre ed io l’ho vissuto ancora di più nei suoi ricordi.
Mio nonno, “nonno Gianni”, invece, quando pronunciava il suo nome, poneva un’inflessione particolare sulla vocale “o”;
quasi come se Maradona, nelle sue parole, diventasse Mara/dòna.
Mara dona. E non credo sia stato un caso.
Perché Diego, figlio povero dell’Argentina degli anni ’60, adottato da Partenope, è diventato fratello dalla sua gente e, donandole emozioni e riscatto (per questo Mara/dòna) ne è diventato sua essenza.
Diego, da vivo, era già un simbolo.
Diego, da non vivo, è diventato un’icona.
Quel che Diego non poteva diventare, era divinità;
perché Diego, nel suo destino ed in quello della storia dell’umanità, perché il calcio è nella storia dell’umanità, era già nato Dios.
Io che, nella maggior parte delle volte, le emozioni riesco a farle trapelare tramite l’inchiostro, per il calcio ho pianto due volte:
la prima, il 22.04.18, quando Kalidou Koulibaly, con un’incornata pazzesca, portava il Napoli a vincere a Torino contro la Juventus, ed i tifosi azzurri vicino al terzo tricolore. Sfumato, purtroppo, qualche settimana dopo…e tutti sappiamo come.
Quella sua vita che non mi sentirò mai di giudicare perché, come ha detto Pep Guardiola, “Tempo fa ho visto uno striscione in Argentina che spiegava Diego alla perfezione. Diceva: ‘Non importa cosa hai fatto nella tua vita, ma cosa hai fatto per le nostre’. Credo sintetizzi al meglio ciò che è stato Maradona. Da innamorato del calcio sarò sempre grato a Maradona perché è stato l’uomo della gioia, del piacere, dell’impegno per il calcio, un mondo che ha reso migliore con le sue prestazioni e con quello che ha fatto per il Napoli e l’Argentina, qualcosa di incredibile.”
Ma anche perchè non sono proprio nessuno per giudicare la vita altrui.
Diego, il ragazzino incontenibile del Barrìo povero di Buonos Aires che sapeva di dover giocare un Mondiale e vincerlo, non è più fisicamente sulla terra ma resta vivo dentro ogni bambino che, calciando un pallone per strada, esclama “Ma chi so’ Maradona?!”
Dunque…
“Grazie Dio,
per il calcio,
per Maradona,
per queste lacrime”
¡Viva Diego!
¡Te quiero Diego!
GRAZIE A “DIOS” HO VISTO MARADONA

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