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Napoli – Lecce: La trappola di Barone

L’impresa di Barone per Spalletti in Napoli – Lecce tra trappole e vendette. L’allenatore della squadra pugliese ingabbia il Napoli di Spalletti e porta il punto a casa

Napoli – Lecce? non solo! La vendetta è un piatto che si serve sempre freddo. Quella di Marco Baroni, cinque anni dopo il game-set-match elargito al Napoli ai tempi del Benevento, porta con sé il vento della freschezza di un progetto che incuriosisce e avrà tanto da raccontare.

Il suo Lecce ingabbia gli azzurri, regala sprazzi di bel gioco e di inedita autorevolezza nel primo tempo e finisce per neutralizzarne nella ripresa il ritorno, tardivo e inefficace. Tatticamente, la partita face to face con Spalletti l’ha vinta lui a mani basse, pur in un turnover equamente distribuito tra le due contendenti. Se il Napoli ne tiene inizialmente a riposo sei (Mario Rui, Rrahmani, Zielinski, Lobotka, Lozano e Kvaratskhelia), i giallorossi si presentano senza uno dei suoi dardi fumanti, Strefezza, per ripescare Di Francesco, e con mezza difesa rivoluzionata rispetto al match con l’Empoli (dentro Pezzella e Tuia per Pongracic e Gallo).

I principi di base però sono chiari: contenere e ripartire portando i due esterni alti a supporto del golden boy Colombo, senza svilire il ruolo dei terzini che devono accompagnare e magari creare superiorità numeriche in ampiezza. Nei primi 45′ la chiave del match è tutta lì: piuttosto che l’atteso 4-3-3, Baroni si piazza con un 4-1-4-1 che conferisce a Banda e Di Francesco il compito di offendere e ripiegare negli ultimi 30 metri quando c’è bisogno di serrare i ranghi.

Tutto questo senza smarrire ordine ed egemonia a centrocampo, dove capitan Hjulmand detta legge e ridimensiona Raspadori, il quale non riesce mai ad affrancarsi dalla morsa del danese: L’ex Sassuolo non vede palla, non entra mai in gara e durante l’intervallo si guadagna la panchina per ordini superiori.

E’ soprattutto sulla catena di sinistra che i salentini affondano che è un piacere (e un’afflizione per il Napoli): Banda – uno dei colpi da mille e una notte di Corvino – fa il bello e il cattivo tempo e in questo duello da smorfia napoletana, la follia più visionaria è la sua perché reclude Di Lorenzo in una delle prestazioni tra le più incolori da quando veste l’azzurro. Pezzella poi supporta le scorribande dell’ala zambiana e insieme azzerano qualsiasi velleità offensiva del capitano di Spalletti. Il secondo capolavoro del tecnico fiorentino.

Al Napoli contro il Lecce non basta la generosità di Anguissa, sempre proteso verso il consueto taglia e cuci ma disorientato dall’indisciplina tattica e dalla rigidità fisica di Ndombele, la cui scarsa lucidità riemerge dal fallo ingenuo su Di Francesco che costa un penalty assai evitabile. Meret fa capire che – previo benestare dell’allenatore – in questo Napoli può starci a pieno titolo. Ma quando Colombo si inventa la magia che lo fulmina, pareggiando il centro di Elmas e i conti col portiere friulano, la sensazione è che giustizia sia fatta. Perché un Lecce così non avrebbe meritato di andare al riposo con la mortificazione dello svantaggio.

Persino – e questo può sembrare un paradosso per i più profani – con un esiguo 30% di possesso palla rispetto al 70 soporifero del Napoli.

Poi, come spesso succede, tanta spregiudicatezza giovanile – non separata in ogni caso da una precisa impalcatura tattica – cede il passo al braccino corto ed è in quel momento che il Napoli sale di convinzione ed intensità, provando un assalto in realtà più disperato che sorretto da raziocinio. Il Lecce perde un po’ del suo fraseggio spumeggiante e si abbassa gradualmente mettendosi a repentaglio più del lecito. Ed è un deficit indotto dagli ingressi di Lobotka, che finalmente dispensa geometrie e piccole certezze ad una squadra fino ad allora imprigionata dal proprio senso di impotenza, e di Zielinski, il quale prova a spezzare le catene di Hjulmand imponendo una mobilità ossessiva capace di non dare punti di riferimento. Durante la gara tra Napoli e Lecce entra pure Kvaratskhelia e gli azzurri si riappropriano di una parte della loro fisionomia. Cresce non a caso pure Politano, che poco prima di congedarsi infiamma i 40mila del Maradona con un numero da brividi che coniuga raffinatezza tecnica e velocità di esecuzione. Non va bene ma sarà per un’altra volta. Fatto sta che gli azzurri sono frenetici e non riescono ad allineare pazienza e malizia alla bontà dei loro propositi. Disattivati Kvaratskhelia, che ci mette anima e gambe ma non trova spunti efficaci perché regolato a dovere da Gendrey, ed Osimhen, già inghiottito da Baschirotto (in primis) e Tuia, e di conseguenza l’ombra di se stesso in area salentina (due palle buone non sfruttate gridano ancora vendetta), il Napoli si spegna pian piano non dando mai l’impressione di poter fare la voce grossa lì dove servirebbero idee più avanzate e un fosforo più complice.

Che cosa ci dice allora questo mezzo passo falso? Intanto che il Napoli attuale non può fare a meno della singolarità di Lobotka e che una mediana troppo muscolare potrebbe essere un limite più che un’opportunità. Che chiudere con quattro attaccanti (anche ieri sera Simeone ha affiancato Osimhen negli ultimi scampoli di partita dopo aver fatto da partner di Raspadori a Firenze) non equivale ad una maggiore temibilità offensiva senza il conforto di meccanismi di intesa già automatizzati e che, nota lieta, la retroguardia acquisisce oggi un Ostigard in grado di reggere la gravosità delle sfide che attendono questo Napoli. E poi ci conferma anche un altro postulato che sta alla base del calcio: quando ci sono competenze e lungimiranza, si possono mettere su organici giovani ma di buona qualità e piacevoli prospettive. Qualcuno sussurra che, a fine stagione, Pantaleo Corvino potrebbe generare per il suo club plusvalenze a due zeri. Chissà, ma regalarsi una serata da protagonista a Napoli con tre 2001, due 2000 e un 2002 (di questi, Banda è stata una intuizione sopraffina), non è roba per tutti. Chapeau. Può festeggiare Baroni, che torna a sorridere davanti ai suoi vecchi tifosi oltre nove anni dopo il trionfo nella finale di Coppa Italia Primavera con la Juve.

 

Di

Stefano Sica